domenica 27 dicembre 2009

La città che ci meritiamo


Diceva Tucidide che le città non sono fatte da muri ma da uomini. Io aggiungo anche da donne (perché, sapete, a quei tempi erano nu poc' sessisti). Questa è la pubblicità sessista delle termemilano. che ha salutato l'anno vecchio. E, quindi, ognuno ha ma città che si merita! 
Peccato non poterci più andare. Alle termemilano. Ci avevo fatto un pensierino...
Per l'anno nuovo vi faccio un augurio: che possiate aderire senza freni al mio slogan IO CONSUMO CRITICO E TU?
ico

Un palo tra le gambe


Come finisce l'anno?
Più o meno così com'era cominciato!
Le pubblicità sessiste non accennano a diminuire, anzi, si mantengono saldamente al comando della classifica tra quelle stradali.
Quello che forse è migliorato in questo anno è lo slancio partecipativo di alcune donne e alcuni uomini che, già sensibilizzati, escono dal silenzio e cominciano a protestare o si associano alle nostre proteste.
Non è un segnale da sottovalutare dopo questi 30 anni di morfina cerebrale in cui le voglie di democrazia e di partecipazione si sono spente visibilmente tanto da portarci a pascolare alle soglie di una dittatura senza il minimo scalpore.
Certo, le idee delle persone comuni sulla pubblicità sono ancora molto confuse e le spiegazioni per avere successo devono durare almeno 1 ora per ogni cartellone ma, alla fine, il chiarimento arriva sempre.
Cosa fare nell'anno nuovo?
non lo so!
io avverto, quasi "controtendenzialmente" la voglia di starmene un po' in silenzio e ritornare alle mie fotografie lasciando alle altre persone dell'associazione www.protocollocontrolapubblicitasessista.it la parte più politica della lotta alle pubblicità sessiste. Forse è più utile se mi rimetto a creare delle opere su questo tema. 
È stato per me un anno di tante parole e sono effettivamente stanco. Vorrei ricominciare a produrre opere. Teatro, foto, scenografie su questo tema perché il primo gradino è facile da salire, ma la scala è lunga e potrebbe non essere percorsa.
Il 2010 sarà il ventesimo anno della mia opera "Chi è il maestro del lupo cattivo?" e forse dovrà cambiare faccia. Vorrei girare un video e montarmelo da solo per raccontare altre mie sensazioni e credo che ci riuscirò.
L'anno finisce ancora una volta con un palo tra le gambe ma si sceglie di rappresentare la scena con le fattezze gentili di una donna che non sembrerebbe una prostituta. Così come in tante occasioni si è cercato di mascherare l'ammiccamento sotto spoglie gentili.
Io questo palo l'anno prossimo vorrei farlo viaggiare. Per altri lidi e verso altre persone!
Buon 2010
Ico



giovedì 10 settembre 2009

Quando il titolo vent'anni dopo è sbagliato....


Chi è il maestro del lupo cattivo? Fin dal primo scatto questo lavoro si è chiamato così e, per ovvi motivi, il titolo non è mai cambiato in questi vent’anni. Lo avrei scelto diverso se avessi dovuto crearlo oggi? Probabilmente sì. Questo mio lungo e ossessivo lavoro di fotografia professionale e artistica – su un tema sociale pesante, come le radici della cultura della violenza sulla donna – oggi rappresenta per me una spina nel cuore non tanto per i motivi che l’originarono ma per fenomeni nuovi che allora non esistevano e che si sono imposti clamorosamente lungo il percorso. In origine, me ne andavo per le strade della metropoli milanese – sciatta e divorata da speculatori analfabeti sdoganati negli anni ’80 – fotografando i grandi cartelloni pubblicitari che coronavano palazzi, imbrattavano metropolitane, rendevano squallidi i tram, per documentare, prima a me stesso e poi alle persone che l’avrebbero visto, questo schifosissimo modo di vendere i prodotti attraverso l’esposizione dell’immagine femminile e il loro impatto sulla formazione delle coscienze dei giovani maschi che attraversavano la città.

Sì. Era incentrata la ricerca sulle conseguenze di questa sovraesposizione mediatici sessista sui maschi giovani e meno giovani. Andavo alla ricerca delle tracce dei maestri che allevavano lupi e violentatori, rispondendo ad un assunto che mi ero dato in partenza e cioè che “violentatori non si nasce”. Col passare degli anni il messaggio propagandistico è andato sempre più scivolando verso la volgarità, l’appiattimento della creatività, l’esibizione gratuita di donne in atteggiamenti da meretrici – escort si chiamano oggi – corredate da frasi sempre più esplicite e senza possibilità di equivoco: la città in cui vivevo prestava i propri muri non tanto come lavagne per la scuola di lupi cattivi, ma come luoghi della propaganda dei modelli femminili che di lì a qualche anno sarebbero diventati dominanti. Già! Scoprivo giorno dopo giorno una verità scioccante: il mio titolo era sbagliato! I giovani maschi non si erano spostati un millimetro dalle posizioni dei loro nonni in materia di rispetto e considerazione della donna. Le lezioni erano andate quasi deserte! Quelle che si erano spostate erano proprio loro: le giovani donne. Quelle migliaia di modelle disponibili che giacevano indisturbate sui muri vendevano qualcosa di più di un semplice prodotto, esse martellavano le giovani donne sulla necessità assoluta di appartenere al gruppo, al plotone delle tutte-uguali, delle ragazzine disposte a tutto per piacere ai maschi, illuse dalla stessa pubblicità di fare tutto ciò per “piacere a se stesse”. Si avviavano – neanche tanto lentamente – a diventare rampanti protagoniste, schiave della “dittatura della bellezza”.

Una manovra terra terra dal punto di vista comunicativo che si svolgeva sotto gli occhi accondiscendenti di tutte e tutti i cittadini. A Milano come altrove in Italia.

Forse questo lavoro era troppo avanti, prematuro, partito troppo presto. Quegli anni corrispondevano infatti proprio alla fase più forte della spinta verso i nuovi modelli di massificazione e – dall’altro versante – massima era la voglia e la naturalezza nell’accettarli non avendo altri valori da coltivare nel vuoto pneumatico della società che languiva intorno.

Mal si sopportava questo tipo strano di fotografo che, invece di arricchirsi fotografando le modelle distese per terra (cosa che sarebbe stata, di lì a qualche anno, acclamata da giovani fans di fotografi delinquenti), fotografava le fotografie dei fotografi che le avevano fotografate per terra e collezionava centinaia e centinaia di quegli scatti nella speranza di risvegliare l’opinione pubblica davanti a questo scempio nascente e possente.

Per quattordici anni invece non è successo nulla! Clandestinità e disprezzo, noncuranza e silenzio.  

La mia attività passava come una lama trasparente fatta d’aria: nessun segno tangibile. Poi qualcosa cambiò grazie a due amici galleristi “indipendenti” di Milano che nel 2004 misero a mia disposizione gratuitamente lo spazio di una stanza in cui esporre le opere. Ma direi piuttosto “operette”… Si videro infatti in quell’occasione 450 provini a contatto 6 x 7 cm incollati su cartoncini spillati al muro. Non c’erano fondi per le stampe e costrinsi tutti a guardare piccolo piccolo, vicino vicino, ciò che in formato 6 metri x 3 facevano finta di non vedere più. Il seguito è stato in crescendo per la mostra – con altre 9 edizioni tutte di prestigio – ma è stato un precipizio per la pubblicità e la società. Immagini sempre più violente e popolo femminile sempre più allineato, escort dentro al potere, maschi che si depilano e non ho difficoltà a dire che in questi ultimi quattro o cinque anni mi sono sentito sopraffatto. La crisi si annunciava, le amministrazioni destinavano soldi agli stipendi dei dirigenti e dei consulenti e non ne avevano per finanziare le mie campagne, i galleristi vendevano opere leggere leggere. Il mio messaggio era troppo difficile, alcuni lo definivano “impegnato”, come fosse un’offesa.

Brutta situazione per uno che combatte con la macchina fotografica battaglie sociali.

Allora ho comprato una macchinetta digitale per continuare a documentare lo scempio senza spendere più soldi miei e ho lasciato che una sorta di silenzio scendesse dentro di me. Ho appoggiato la macchina fotografica professionale sopra un ginocchio e mi sono seduto su un gradino in basso, restando in ascolto di rumori nuovi.


venerdì 3 luglio 2009

3 prostitute all'Agorà



La serata era calda ma non proprio come quelle ateniesi classiche. Si stava bene all'aperto nonostante la folla di turisti che rendevano le taverne simili agli autogrill. I quattro si aggiravano tra i tavolini malfermi e gli ospiti distratti. Avanti veniva la più alta, bella, lucida come una macchina uscita dal lavaggio, abito leggero nero con una linea nient'affatto ateniese, piuttosto milanese. Seno ben evidente con scollatura profonda, tacchi robusti e molto alti. Dietro venivano le due mezzane di altezza, non basse ma nemmeno statue come lei: diciamo due "quasi alte". L'abito identico, i seni pure e le scollature e le scarpe e i capelli e il colore della pelle pure ma venivano dopo, dietro, nella seconda linea. La più bella aveva il compito di fendere la folla e passare tra i tavolini distribuendo generose strusciate di lombi e cosce ai mangiatori che si fingevano meno distratti, per poi riemergere nei piccoli spazi liberi, come per riprendere fiato. In fondo, ma un po' in disparte veniva lui: il protettore. Un ragazzetto insignificante che, in altro contesto e con altri abiti, si sarebbe detto un pastore con le pecore. Qui era un protettore con la sua merce preziosa da esibire. Le vigilava da lontano per non intralciare il lavoro sporco. Sì sporco! le tre statue e statuette promuovevano sigarette! Oggetti che fanno venire il cancro ai polmoni. Con disinvoltura e senza proteste. O meglio... qualche protesta c'era da parte delle mogli, fidanzate, amanti che sedevano al tavolo con uomini a cui le tre si rivolgevano sfacciate. Qualche occhiataccia che veniva addolcita da un regalo più innocente dalla prima ammaliatrice: un accendino. Nero come il suo vestito. Giravano, volteggiavano tra i tavoli reggendo in mano un ridicolo espositore in plexiglas nel quale erano incastrati tre o quattro pacchetti anche loro neri. Le unghie all'ultima moda non rompevano lo scurore. Entravano e uscivano dalle file di sedie e tavoli, volavano oltre lasciando passare i camerieri che reggevano vassoi molti più prosaici ma meno dannosi alla salute. Ai nostri occhi erano uno spettacolo raccapricciante. Tre giovani donne che accettavano di esibire la propria sessualità attraverso un corpo apparecchiato ed esaltato come per una vendita, come per una processione erotica. Già! tanti secoli prima, in effetti, lì vicino passavano le processioni di vergini che salivano all'acropoli a rendere omaggio alla loro Athena. Queste ragazze certamente non potranno sapere quale brutta figura facevano ai nostri occhi perché sembravano contente, perfettamente nella parte. Loro non si sentivano delle prostitute. E come avrebbero potuto? Il loro protettore non concedeva una tregua nemmeno per bere un bicchiere d'acqua. Bisognava vendere, vendersi, essere efficienti, almeno terminare gli accendini che riempivano una brutta e goffa sacca di tela beige che pendeva sulla spalla della lunga ondeggiando pesante.

mercoledì 10 giugno 2009

Da Pericle fin qui




Discorso agli Ateniesi - Pericle, 461 a.C.

Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Pubblicato il 9/5/09 da Francesco sacchi sul Blog di Principia social network

Risposta mia
Bravo Francesco, la scelta di questo testo ti fa onore e fa onore a me esserti amico, spero.
Vista da così lontano questa goccia di storia ateniese "democratica" del V sec.a.C. ci lascia sgomenti. Anche in una società in cui le donne non erano nemmeno considerate cittadine (quindi non avevano né cariche né diritto di voto), e così pure gli stranieri di padre o di madre, in una società in cui esisteva la schiavitù ufficiale e un certo modo di intendere gli altri popoli (vedi l'origine del termine "barbaro", cioè coloro che non parlano greco), alcuni concetti fondamentali erano già fissati in maniera indelebile nel cuore di tutti. Cosa è successo in questa Italia negli ultimi 30 anni da fare in modo che i candidati più votati della lega siano stati uomini di sicuro animo razzista e antidemocratico? Certamente hanno sbagliato coloro i quali hanno ritenuto che la cosa pubblica non fosse interesse di tutti. E invece Pericle (e molti altri ancora meglio e prima di lui) e tu ci fate riflettere sull'intramontabile necessità di essere sempre e comunque cittadini attivi. Così, semplicemente. Senza vergogna. Sono loro che dovranno un giorno vergognarsi.
Bravo Fra'



sabato 6 giugno 2009

Come il primo minuto che viene dopo una guerra (Ivano Fossati)

Quando dietro la curva scomparve l'ultimo carro con le armi io e mia sorella ci stringemmo la mano e tirammo su il naso che colava. Lo facemmo insieme come un segnale. La guerra era finita. Ma cosa era stata? Eravamo cresciuti di mille anni in pochi mesi e avevamo imparato cosa incredibili come camminare vicino ai morti e nemmeno guardarli. Ci sentivamo grandi, forse vecchi e non avevamo ancora 20 anni in due. Con la mano stretta come se ancora ci fosse pericolo uscimmo dalla casa senza tetto e scendemmo alcuni gradini che erano per caso rimasti puliti. Camminavamo ancora abbassati come avevamo imparato. Ma no! Non ce n'era più bisogno. Cominciammo a correre arrivando fino all'angolo del palazzo distrutto dietro il quale era scomparso il carro con le armi. Lei correva più di me perché aveva ancora le due scarpe. Io una. Ci fermammo tre o quattro metri prima dell'angolo per paura di essere visti dagli uomini del carro. Ma non sentivano più i cingoli sulla strada fatta per altri mezzi. Ci affacciammo dietro l'angolo con la memoria che ci premeva sulle tempie da dentro e ci metteva paura. Dietro la casa ora c'era il mare! Non l'avevamo mai visto il mare. Blu come gli occhi della sorella della nonna Maria. E c'era un vento bellissimo che ci lavava la faccia incrostata. Dimenticammo la guerra dopo appena un minuto. Fu il minuto più veloce della nostra vita veloce. Il cuore ci risucchiò il respiro e ci tuffammo. Sapevamo nuotare senza aver mai imparato. E nuotavamo. E nuotavamo. Senza fatica. Le lacrime si confondevano con quelle del mare. Piangevamo per quella tristezza infinita che lasciavamo dietro. Non volemmo tornare indietro. Nuotammo fino alle coste del nuovo mondo e quando uscimmo dall'acqua del mare avevamo la faccia pulita e il cuore quasi leggero. Era passato solo un minuto. Il primo minuto che viene dopo una guerra quando per quattro soldi la musica suona di nuovo, una musica dolce e lontana come il primo addio. Ci prendemmo di nuovo la mano e tirammo su il naso. Insieme. Come un segnale. Ma questa volta ridemmo. 

mercoledì 27 maggio 2009

Con il silenzio negli occhi



Dedicato a Graziella Allegri
(dall'introduzione del libro Yangtze river. Il fiume azzurro della Grande Cina)

Seguire le tracce di una  “viaggiatrice d’animo” come Graziella Allegri è un’operazione di difficile e di esito incerto. Tutti noi possiamo comprendere facilmente il valore della mirabile documentazione fotografica riportata da numerosi viaggi in paesi lontani e sconosciuti alla maggioranza dei comuni viaggiatori. Così come possiamo apprezzare la piacevolezza di un racconto scritto in tono non accademico e accessibile ad ognuno. Tuttavia, anche quando avremo compreso questi due elementi “editoriali” saremo ancora nella più totale e superficiale cecità. Muoversi tra le pagine di viaggio di Graziella richiede una dedizione particolare, un silenzio interiore al quale sempre meno siamo abituati. Unire il documento fotografico e il racconto non basta: dobbiamo riuscire a sentire anche noi il battito del cuore e il respiro dell’autrice e vibrare della stessa febbre di conoscenza e di solidarietà che ha spinto lei su e giù per le montagne dell’Asia. 
Possiamo farcela, ma a un patto: chiudere fuori dalla porta il rumore, la fretta, l’egoismo e la sfiducia e lasciarli fuori per tutto il tempo necessario a godere di questo libro e percepirne la musica.
Ecco allora che queste piantagioni di verde mais, questi Buddha enormi si misceleranno magicamente alle delicate sagome delle donne Miao e dei multicolori abiti tradizionali dei bambini, rispettando quel silenzio che per millenni le ha viste convivere fino all’avvento dei rumori della modernità.
Proprio questo è il segreto della nostra amica perennemente con lo zaino in spalle. Viaggiare in un silenzio interiore carico di amore e curiosità. In punta di piedi e con il massimo rispetto per l’ambiente, le popolazioni, gli animali, seguendo questo grande, potente, inesauribile Fiume Azzurro, ricco di acque a volte fangose ma animatore di un fluire ininterrotto di dinastie, epopee e milioni, miliardi, di semplici storie personali. 
Scrivere la storia di un fiume è un fatto bizzarro perché il fiume è in effetti un’entità geografica “a mutazione immediata”: le sue acque sono condannate ad abbandonarci sempre, non restano mai con noi, animate da questa attrazione fatale con il mare. Graziella invece ha saputo raccontarci momenti di struggente poesia in cui queste acque diventano soggetto immobile contravvenendo a tutte le regole della fisica terrestre ma non a quelle della poesia. I versi sono rive incostanti, fili d’erba che galleggiano, bambini che giocano con i piedi bagnati. Un mondo di endecasillabi appassionati che pochi hanno visto e pochi in futuro vedranno. La Allegri è innanzitutto autrice ecologista, convinta sostenitrice della salvaguardia del pianeta e dei suoi abitanti. Non a caso ha fatto della sua vita un esercizio continuo di “scienza altruistica”. Dalle formule della farmacologia ai cartelli con la scritta perentoria e impressionante “175” che vediamo in queste pagine il percorso è speciale e non scontato. Quel numero piantato sulle rive scoscese indica la quota fino alla quale tutto sarà sommerso dalle acque, una volta che la grande diga avrà cominciato a fermarle e farle lievitare. Addio ai campi sulle rive, alle foreste cadenti sulla schiuma dei gorghi. Molto sarà sommerso e non lo vedremo più.
Si capisce così l’importanza di avere tra le mani un libro così, in cui si racconta una storia che ancora non è accaduta ma che fra qualche decennio si rischia di non sapere nemmeno più che sia accaduta. Lei l’ha fermata sulla pellicola, l’ha raccontata e ce la consegna. Noi abbiamo il dovere e il piacere di far silenzio nei nostri occhi e guardare insieme a lei.
Come in una sinfonia prima dolce poi maestosa il nostro occhio scorre dalle pagine bianche di neve e di pastori fino all’assordante rumore delle acque della diga e delle potenti macchine che l’hanno costruita. Poi, magicamente, ritornerà il silenzio e ci troveremo a ripensare al nostro destino di uomini e di donne, ma con animo più leggero. 

Ico Gasparri 

martedì 26 maggio 2009

Fuori dalla tua porta ci siamo anche noi




La ragazza ha un accento del sud sembra più giovane ma ha 36 anni.
Al secondo tentativo dopo una riunione e vari impegni urgenti risponde al telefono con lunghi silenzi e mi pare imbarazzata appena capisce il contenuto della conversazione. Si scusa per il rumore dell'ufficio che io non sento.
Anche lei deve lavorare in un cosiddetto open space in cui tutti sentono tutto e non mi sembra a suo agio.
Le dico che sono un ricercatore che vuole porle delle domande su una campagna pubblicitaria di cui lei risulta essere l'"art", cioè la responsabile della "creatività".
Povera creatura mi sembra un'operaia cinese in una manifattura sfruttata dagli occidentali.
ha ragionato finora solo con la testa dei suoi padroni e non capisce bene le domande.
Non è stupida ma non è abituata a guardare fuori dalla finestra.
Cosa c'è fuori dalla tua porta? Ci siamo noi, quei milioni di persone che non la pensano come te, anzi che pensano con una testa libera e non sono costretti ad inventarsi risposte incredibili.
Mi parla di cose che conosco ma che riconosco fuori misura: target, immagine del prodotto giovanile, responsabilità di altri, campagna nata per un motivo poi finita sui muri della città perché gli hanno quasi regalato 600 spazi – dico 600 – in tre mesi perché nessuno li vuole più; mi parla di acqua cosmetica, funzionale, che in ufficio la bevono e fanno tanta pipì. Le chiedo se ha mai provato con altra acqua ma non sembra cogliere. Dice che io insinuo, che le dispiacerebbe se la sua campagna finisse in un elenco di pubblicità discriminanti perché loro, anzi, vogliono che le donne si sentano bene nel loro corpo per piacere. Se l'avessi avuta avanti con una mezz'ora di tempo a disposizione, magari le avrei chiesto "per piacere a chi? e "per farsi fare che cosa dopo essere piaciuta?"
Mi conferma candida che le tre foto sono state scattate per evidenziare quei punti che creano più problemi alle donne: cosce, seni, glutei, girovita. Ecco allora perché c'è una donna a sedere in su, una sul fianco e una seduta.
Si ma distese e sedute dove?
Lei lo chiama "appendino"
noi al sud la chiamiamo "stampella per i panni". 
In questa drammatica pubblicità si consuma a chiare lettere una rottura, diciamolo pure una "dicotomia iconografico/logica", (Miiiiiiiiiiiiiiii) in cui il corpo e la donna prendono ufficialmente due strade diverse. Il corpo diventa un abito, anzi "l'abito più bello e perfetto che una donna possa indossare" Parola sua. E della donna cosa rimane? Un'anima? sì ma scontenta finché non avrà indossato il vestito più bello. ma per indossarlo deve prima fare prima tanta pipì. Ma questa pipì da dove scorre se il corpo non c'è?
Rinuncio a girare il coltello nella piaga.
O forse il corpo perfetto si deve indossare sopra quello con la cellulite? Non lo sapremo mai. Come una tuta di superman. 
la sensazione che altre volte avevo notata, coperta sotto un velo di cattiva fede, questa volta ha un sapore diverso. Questa ragazza non è in cattiva fede. Lei ci crede davvero. Non si pone nessuna domanda perché crede che non ci siano domande da porsi. Fuori dalla sua porta ci sono animali fantastici e semitrasparenti, mal identificati e mitizzati. Tanto, nessuno farà mai veramente dei controlli sull'efficacia delle sue strategie. Poi un giorno le aziende chiudono e si parla di crisi.
Fuori dalla sua porta ci sono schemi preconfezionati lontani anni luce dalla mia visione dei fatti. Il dies irae di Mozart mi tiene compagnia ora che ci penso e capisco quanto abbiamo fatto male a stare zitti in questi 30 anni. Potremmo non farcela a rimettere questo paese in piedi. Giace coricato su cumuli si idiozie e di imbrogli. 
Le dico poi che ho intervistato oltre 50 persone sotto i tabelloni della sua "acqua funzionale" e nessuno aveva apprezzato il messaggio. Molti nemmeno avevano capito che fosse acqua da bere. Obietta che ho intervistato male, che non ho centrato il target, che ho posto le domande male perchè i giornalisti pongono le domande in modo tale da influenzare le risposte. Le dico di nuovo che non sono un giornalista ma un ricercatore e allora ricomincia che le dispiace che io abbia preso questa cantonata. Che quella pubblicità era destinata solo al target delle giovani donne.
Le chiedo allora perchè non hanno inviato a casa del target un foglietto con la pubblicità (magari col servizio posta target....)  e hanno tappezzato e tappezzeranno la città con 600 manifesti 6x3.
Mi arrendo. lei non mi chiede nemmeno come mi chiami e richiude la porta cacciando l'unicorno nel corridoio degli ascensori. Con un'aria un tantino infastidita.
Torna ad abbracciare il suo target sicura e io ripenso a come deve essere stato doloroso per mozart capire di morire senza aver ultimato la musica per il suo funerale, fermandosi proprio ai versi del Confutatis "Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis.". Chissà se mozart scriveva per un target.

Cara Francesca gentile e forte


Cara la mia amica Francesca gentile e forte
ti ringrazio per essere così vicina all'attività del protocollo che, lo sai, non è una battaglia mia ma una lotta per costruire l'italia di dopo. 
Sì l'italia di dopo, quella che ora ci manca e che pochi stanno cominciando a costruire
la diffidenza è tanta e l'affratellamento spontaneo pure
un mondo molto diviso tra quelli che sono indietro e noi che vaghiamo avanti senza una bussola ma lontani e isolati
perchè ti dico queste cose non lo so bene
ma sento che più che mai stiamo vivendo un periodo dai confini pochi netti che nelle nostre mani prenderà forma
ma le mani ci scotteranno perchè le funi cominceranno a tirare forte e ci sfuggiranno dentro le dita.
allora chiameremo le amiche e gli amici chiedendo loro di tenere forte e di riportare questo battello pieno di naufraghi a riva
naufraghi ma vivi
ecco come arriveremo
ti abbraccio forte e gentile
ico

lunedì 20 aprile 2009

Volare Chopin


È così che Chopin mi è entrato in testa. Capita, a volte, che non abbiamo avuto l'occasione giusta nella vita per capire qualcosa che pure era lì da decenni, a volte da secoli. Fotografare il Giardino della Minerva era per me un'esperienza impossibile: troppo più importante di me. Allora ho pensato di raccontarlo ad occhi chiusi. Per quanto possa sembrare assurdo mi muovo nel Giardino per fotografarlo ad occhi chiusi. So che ogni fotografia sarà sbagliata. Non ce la posso fare! E non per mancanza di fiducia in me stesso ma per una evidente differenza di scala. Io non so niente di questi uomini che hanno creato questa meraviglia. Non ci siamo guardati negli occhi e non so cosa pensavano esattamente. Posso immaginare la finalità del loro operare caparbio, della ricerca spasmodica del seme introvabile, ma niente di più. Come queste note di pianoforte che entrano ed escono dalle mie orecchie accompagnate da contributi di altri inutili strumenti, io attraverso le aiuole sfidando l'ignoranza. Mi muovo a tratti e inciampo nei profumi e nella semplicità disarmante delle piante. Più sono piccole forse, più sono utili. Noi che abbiamo tutti e quattro i piedi in questo mondo di superficie e velocità non sappiamo cosa ci vorrebbero dire. Così mi siedo, quasi mi inginocchio, di fronte alle piante di timo, maggiorana, melissa e chiedo loro di aiutarmi. Per carità! Aiuto! Trasformare una piantina ricca di valore ma bruttarella in un'opera d'arte è per me sempre un'impresa disperata. È per questo che mi siedo. Mi siedo e aspetto. Aspetto un aiuto che alla fine sempre viene e mi stupisce. Il motivo era lì e io non lo vedevo. Non lo sentivo. Poi arriva questo Chopin tanto abusato che mi solleva da terra e mi fa volteggiare sopra le piante e tutto si sistema. Come faccio a spiegare l'emozione della musica che si trasforma in fotografia? Un giardino sospeso su una città che gira inconsapevole di tanta meraviglia, inondato dalle note di un piano che si diffondono tra una rosa canina e un cespuglio capriccioso di asparago. I notturni così famosi diventano per me musiche nuove dal profumo di menta e mela cotogna. Mi apposto, giro intorno, a tratti sono disteso per terra e sono così ridicolo che Bianca mi fotografa a sua volta. Che presunzione la fotografia! Tagliare un quadratino di universo e pretendere che gli altri provino delle emozioni! Ma io avevo il loro lasciapassare. Capelvenere e papiri avevano emesso il loro verdetto: potevo continuare. Allora su e giù per le terrazze, girando attorno al più bel ciliegio che avessi mai visto, in fiore fino all'ultimo ramo in quel giorno della pasqua al mezzo di aprile, direi quasi raggi invece di rami. L'unica immagine che mi venisse in mente da paragonargli erano gli alberi fantastici che aiutano Harry Potter nel film numero non so che cominciano a muoversi e lottare per il bene contro il male. In effetti anche queste mie immagini poverelle sono una lotta. Una tentativo di rallentare il mondo che ha preso a girare troppo veloce. È per questo che ho scelto di fotografare questo giardino come luogo massimo di contraddizione del pianeta. Le piante che hanno bisogno di tempi della natura e l'uomo che uccide ogni giorno la natura e se ne fa beffa. Sappiamo che è così ma inspiegabilmente voltiamo lo sguardo. Sappiamo che così finirà male ma sappiamo che non sarà per noi, ma per i nostri figli o nipoti e schiacciamo l'acceleratore. Bel regalo che ti faccio figlia mia! Allora mi concentro e cerco di non sbagliare il tagli, l'esposizione, la profondità per capire dove cominciano le piantine e dove finisce l'acqua per il riflesso. Che agitazione quando mi trovo di fronte a un piccolo fiore raro che cresce sopra la fontana e il sole sta girando troppo velocemente. Riesco a riprenderlo prima che sia troppo tardi. Mi guarda e sorride, mi fa capire che ha chiesto una piccola deroga per me. Per qualche secondo anche il sole si è fermato. Me ne salgo sulle scale contento e passo ai limoni con la fontana a stella di sapore molto antico e un piccolo albero di pruno che mi piace da vedere ma non riesco a fotografare bene e lo lascio in pace. Quando finisco trovo il tempo per sedermi ancora e guardare la chiesa dell'Annunziata e il porto dove sbarcano merci di altre epoche rispetto alle piantine mie e me ne vado con il cuore in pace lasciando a Chopin il compito di chiudere la porta. 

lunedì 19 gennaio 2009





Accade una cosa strana dentro di me della quale solo ora mi rendo conto e mi interrogo e racconto. Da diversi anni come stupido artista (e uso la parola stupido per indicare una via di ribellione al pensiero unico dominante P.U.D.) che si occupa di problemi politici, sociali, umani, attraverso la propria immagine fotografica, lavoro ad una ricerca dal titolo Il parco-non-giochi che dovrebbe riuscire a parlare al cuore delle persone di un problema che sta a cuore a me: la perdita dello spazio del gioco per i bambini in guerra e nelle migrazioni. È il vecchio schema degli artisti: soffro-penso-creo-racconto a te che soffri- pensi-guardi, ascolti, leggi. L'artista cioè non sente niente di più delle altre persone che non vivono d'arte, ma trova il coraggio o la spudoratezza di raccontarlo. Ebbene, come uno scrittore che scrive un libro per mesi ed anni, io ho raccolto le mie immagini, i miei testi, ho coinvolto musicisti, attori, danzatrici, galleriste indipendenti affinché questo mio lavoro prendesse la luce, con risultati piccoli ma incoraggianti.
Accade però che un certo giorno l'intero pianeta venga attraversato da un vento gelido, come nei film che raccontano le grandi catastrofi fantascienticiche in cui città ormai deserte sono spazzate dal vento e qualche carta vola a livello del suolo. Accade che dei veri bambini in un piccolo pezzo di terra chiamato GAZA dal nome della sua città principale, non lontanissimo dal luogo della terra dove nacque un altro bambino che – caso unico – è diventato addirittura dio, abbiano smesso di giocare perché sono arrivati aquiloni con le bombe, cavallucci con le mitragliatrici, palloni che scoppiano, macchinine che sputano proiettili, bambole senza braccia né gambe e addirittura accade che questa colonia di bambini muoia nel giro di pochi giorni in un numero che trasportato sulle cronache milanesi significherebbe: cancelliamo l'intera scuola Tiepolo in un secondo: tutti morti! Altro che problema della perdita dello spazio del gioco! Accade che molti di questi bambini infatti abbiano smesso di giocare per sempre e anche di andare a scuola (chissà come saranno felici!!!). Gli altri si sono rifugiati in casa. E, se sono rimasti vivi dopo le bombe sulla casa, sono scappati nella scuola ONU con i parenti sopravvissuti. E, se sono rimasti vivi nella scuola dell'ONU bombardata allora hanno preso per mano (se ne hanno ancora due ottimo, ma anche una sola va bene) e sono scappati per strada con chi hanno incontrano o addirittura da soli. E, solo allora, sono  diventati immortali: ecco il gioco! Hai superato tutti i livelli. Ora sei immortale. Puoi uscire in mezzo alla guerra e non muori più. A questo servono le guerre, ho pensato, a rendere immortali alcuni bambini fortunati. 
Accade che questo stupido artista in questo momento del circo di guerra dimentichi addirittura che sta lavorando a qualcosa che riguarderebbe anche quei bambini. Perché? Non lo so!
Ci sono voluti giorni e giorni per risvegliarmi e afferrare il concetto che la realtà ha fatto ancora una volta più schifo delle realtà precedenti verso le quali avevo e avevamo sofferto-pensato-creato-raccontato. Questo vuol dire che il lavoro dell'artista è ridicolo? Certo che è ridicolo perché la potenza del P.U.D. è devastante. Tu arrivi a pagina due e lui scrive col sangue la pagina 100...
Mi sono risvegliato quando una corrispondenza di Vittorio Arrigoni mi ha raccontato che una mattina in quella città di GAZA, nascosto dietro l'angolo di una casa un bambino lanciava con la sua fionda delle piccole pietre agli aerei israeliani che volavano bassi sopra le case. Lui avrebbe voluto almeno salutare i piloti con la manina, ma quello era un aereo senza pilota: portava solo le bombe e allora si è molto rattristato. Ecco che mi sono ricordato allora della mia storia del gioco: quel bambino trovava il modo di giocare anche lì, in quel momento, magari senza più una famiglia. La realtà faceva più schifo della storia precedente ancora una volta ma quel bambino spostava di nuovo avanti la bandierina del racconto. Lui lanciava le pietre ad un aereo automatico, sì un aereo telecomandato! Un gioco nuovissimo e vecchissimo. Lui sì che mi ha risvegliato e allora vi riconsegno due poesie scritte in passato per questi irriducibili bambini che giocano anche dentro la guerra.
Ico 19/1/09


9/8/06

1)

salta bambina

salta bambina

questa è una mina

questa è una mina

corri bambino

corri bambino

quello è un cecchino

quello è un cecchino

piange la nonna

piange la nonna

senza la gonna

senza la gonna

torna sorella

torna sorella

come sei bella

su quella barella


2)

quant’è armato questo carro

da vicino è un po’ bizzarro!

se mi passa pian pianino

gli darò un bel bacino

e se mi vedrà l’omino

gli darò un fiorellino

sussurrando per benino

non sparare al fratellino 

5)

questo è un anno assai speciale

ogni cosa va un po’ male

ho la casa nella scuola

ho le bombe nell’aiuola

c’è lo scivolo deserto

e c’è un fosso bello aperto

se continua a questo passo

qui la vita è un grande spasso

niente compiti e lezioni

solo aerei da aquiloni



14/3/07

10)

non mi importa mica tanto

chi ha sparato e da che canto

so soltanto che al mattino

ero uscito col papino

cercavamo un bel giardino

per giocare a nascondino

siamo scesi per la strada

ma è scoppiata l’intifada

non più pietre né schermaglia

qui si spara e si mitraglia

per cercare un paravento

ecco un blocco di cemento

il papino è tutto bianco

io mi infilo nel suo fianco

fischi e urla razzi e fuoco

non mi sembra proprio un gioco

quando tutto a un bel momento

si raffredda anche il vento

vedo il cielo che mi manca

e una luce bianca bianca

stringo forte il mio papino

ma la luce è un lumicino

riesco solo un momentino

a mandargli un bel bacino

e guardardo nei suoi occhi

vedo tutti i miei balocchi